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  • Immagine del redattoreSilvia

La tartaruga rossa

Guardare in questi giorni "La tartaruga rossa" (di Michaël Dudok de Wit) fa un effetto particolare.

L’isola c’è. Ci siamo proprio sopra.

La zattera c’è. Ognuno di noi ne avrà preparate diverse e avrà provato in modi differenti a lasciare l’isola.

Il punto è che dall’isola non si può andare via.

Anche quando sembra che si possa tentare, arrivati a un certo punto, qualcosa fa a pezzi la nostra zattera e ci rimanda a riva.

Forse quello che fa a pezzi la zattera sa che è meglio che restiamo sull’isola. Almeno al momento. Che è meglio restare che partire, fermarsi che agitarsi.


C’è una trasformazione nel mezzo della storia. Ma per portarla a termine bisogna abbandonare zattera e carapace. Restare senza niente.

Sull’isola può nascere qualcosa di nuovo. Come un figlio.

Intanto l’isola nutre e provvede e disseta di acqua dolce e contiene.

Ma non nasconde che può arrivare anche di peggio. E il peggio arriva.

Dopo il peggio, l’isola rinasce e rinverdisce.

Nel frattempo molti sogni.

Per me, la parte migliore del film. Tutte le scene notturne.

Il primo sogno, quello del ponte è stupendo. E poi gli altri. Per dire che anche quando non possiamo far niente e siamo fermi sull’isola, una parte di noi esce, ritorna, si muove.

Ma il sogno più bello è quello del figlio.

Un’onda alta e ferma. Il ragazzo l’attraversa e riemerge sulla cresta come in cima a una montagna e guarda giù, verso i genitori sulla spiaggia e poi verso il mare aperto.

Può lasciare l’isola solo chi è mezzo uomo e mezzo tartaruga.

Chi ha imparato qualcosa dall’isola può fare ritorno.

Chi, almeno per una parte, è nuovo.

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